CLASSIFICAZIONE E METODI DI RESTAURO DELLA PIETRA LECCESE

La formazione geologica della pietra leccese, un tempo definita come “il marmo dei poveri”, risale al periodo Miocene, tra 24 e 5 milioni di anni fa; a tale formazione i cavatori locali hanno attribuito diversi nomi: “pietra gentile o leccisu” se si presenta a grana fine o omogenea, “saponara” se friabile e biancastra, “bastarda” se è eterogenea, “pirumafu” quando presenta grana omogenea verde-grigiastra e “mazzara” se invece è grossolana.

La natura stessa della pietra, però, la rende sensibile all’azione degli agenti atmosferici e allo smog. In passato le attività progettuali di restauro hanno consentito la conservazione di opere molto antiche.  Gli interventi storici più diffusamente applicati sulle superfici lapidee erano la scialbatura, la stilatura, la bitumazione, il lavaggio, la tinteggiatura, la reintegrazione di piccole porzioni murarie, unite alla costante verifica dello stato di salute degli elementi compositivi dell’opera.

Ulteriore metodo per trattare la pietra utilizzato dai maestri dell’arte barocca era il latte. Il blocco di pietra veniva totalmente immerso nel liquido e il lattosio in esso presente, penetrando nella roccia, creava uno strato quasi impermeabile che manteneva integra la pietra. Ad oggi, invece, vengono utilizzati svariati trattamenti chimici, come i solventi o i reagenti che preservano la sua durezza e compattezza.

 

 

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